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The Post Internazionale | Potere e Profitto: il libro americano di Meloni (di A. Venzon)

In Italia nessuno si chiede se sia normale che una premier in carica intraprenda un’operazione commerciale potenzialmente milionaria in uno Stato alleato, intrecciando politica, business e diplomazia personale. Il rischio è che il nostro Paese non parli più con la propria voce, ma con quella che conviene ai rapporti personali del suo leader

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Se si venisse a sapere che Giorgia Meloni ha pubblicato un libro in Russia, con il supporto di Vladimir Putin e la prefazione di suo figlio, il Paese esploderebbe di indignazione. Editoriali, interrogazioni, appelli alle dimissioni: tutti griderebbero allo scandalo per l’influenza indebita di una potenza straniera. Ma siccome il libro è uscito negli Stati Uniti – una biografia politica pensata per il pubblico conservatore americano, promossa con il sostegno di Donald Trump e la prefazione di suo figlio, Donald Trump Jr., oggi vicino all’attuale presidente – tutto tace.

Nessuno si chiede se sia normale che una premier in carica intraprenda un’operazione commerciale potenzialmente milionaria in un Paese alleato, intrecciando politica, business e diplomazia personale. L’America non è la Russia, certo, ma il principio democratico dovrebbe essere lo stesso: un capo di governo non può mescolare il proprio tornaconto con le relazioni internazionali del Paese.

Il caso Meloni è più serio di quanto sembri. L’uscita del libro, promossa mentre è in carica, avviene in un momento in cui il governo mantiene un silenzio assordante su due fronti dove Trump ha posizioni forti e spesso contrarie ai nostri interessi nazionali: Gaza e i dazi. Sul massacro di Gaza, Meloni ha evitato una condanna netta dell’intervento americano e israeliano, limitandosi a formule di “preoccupazione umanitaria”. Sui nuovi dazi Usa contro la pasta italiana, che rischiano di colpire migliaia di produttori con tariffe fino al 90%, la risposta è stata timida: nessuna presa di posizione pubblica, nessuna pressione politica su Washington, nessuna difesa di un comparto che vale oltre due miliardi di euro in esportazioni. È solo una coincidenza, o la prudenza diplomatica serve anche a non compromettere un affare editoriale da milioni di dollari?

La legge italiana sul conflitto di interessi – la famigerata Legge 215 del 2004, scritta ai tempi di Berlusconi – è una foglia di fico. Non vieta a un premier di avere interessi economici, basta che non firmi personalmente un atto che li favorisca “in modo diretto e specifico”. In pratica, è impossibile dimostrare quasi tutto. Così chi governa può fare affari, scrivere libri, condurre trattative, perfino possedere aziende, purché mantenga un’apparenza di distanza.

All’estero, certi comportamenti sarebbero impensabili. In Francia, nel 2017, il ministro dell’Interno Bruno Le Roux si dimise per aver assunto le figlie come assistenti parlamentari: nessun reato, ma la percezione di abuso bastò. Nel Regno Unito, la ministra Suella Braverman lasciò nel 2022 per aver usato un’e-mail privata per inviare documenti riservati; un anno prima, il ministro della Sanità Matt Hancock si era dimesso per un bacio con una collaboratrice. Tre casi diversi, un principio identico: chi esercita il potere deve essere al di sopra di ogni sospetto, anche morale.

In Italia, invece, l’etica pubblica si piega al vantaggio personale. Un(a) premier in carica può guadagnare milioni grazie al proprio nome e nessuno fiata. Eppure non è solo un problema morale: è una questione di sovranità. Quando il capo del governo intreccia i propri interessi con quelli di una potenza straniera, chi garantisce che le sue scelte restino indipendenti?

Il rischio è che l’Italia non parli più con la propria voce, ma con quella che conviene ai rapporti personali del suo leader. Serve un’indagine. Serve una legge vera, non una copertura. E serve un’opposizione che abbia il coraggio di chiedere chiarezza, non per fazione ma per dignità democratica. Perché il potere non è un marchio registrato, né una fonte di reddito privato: è un mandato temporaneo per servire il Paese. E quando il potere diventa un business, la democrazia è già in svendita.

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